Lui è Mio (Vol. 2)

— Casa, dolce inferno.  —

Un matrimonio dovrebbe essere un’occasione gioiosa ma, per Seth Villani, è tutt’altro. Costretto a un matrimonio combinato, di nuovo sotto lo stesso tetto con la sua famiglia di lupi e serpenti, Seth deve tenere gli occhi aperti se vuole sopravvivere fino al fatidico sì. Anche se, con la sua relazione con Domenico Acerbi che gli sta sfuggendo di mano e suo padre che lo costringe a spargere del sangue, ogni tanto Seth vorrebbe solo sprofondare fra le onde scure del mare siciliano.
Il ritorno in Italia, per Domenico, è pieno di amarezza e rimpianti. Sa che dovrà guardare Seth, il primo uomo in tanti anni che sia riuscito a entrargli nel cuore, percorrere la navata e sposarsi. Seth gli appartiene, e vederselo strappare dalle braccia è un affronto inaccettabile. Eppure, nonostante la tensione fra loro e il suo crescente risentimento, Domenico deve continuare a guardargli le spalle, perché Seth è nel mirino di tutti. E, per quanto Domenico non voglia che Seth si sposi, non permetterà che sia ucciso.


Temi: Da nemici ad amanti, mafia, omofobia, assassini, criminalità organizzata

Genere: dark erotica / thriller

Contenuto erotico: Sesso esplicito omosessuale, coercizione

Lunghezza: 90,000 parole

AVVERTENZE: Contenuto maturo. Se vi offendete facilmente, questo libro non fa per voi.

Guns n’ Boys è una storia con violenza estrema, linguaggio offensivo, abuso e protagonisti dalla moralità ambigua. Dietro la facciata macabra, ci sono un pizzico di humor nero e una storia d’amore che vi catturerà.

Il dolore alla nuca faceva venire a Seth voglia di vomitare le lasagne che aveva mangiato… quanto tempo era passato? Non ne aveva idea, e nemmeno di dove si trovasse. L’odore di curry del sacchetto che aveva sulla testa faceva peggiorare la sua nausea a ogni respiro. Gli tornò bruscamente la sensibilità, aggredendogli le terminazioni nervose in tutto il corpo. Dappertutto eccetto che nelle mani. Riusciva a malapena a sentirsi la punta delle dita; aveva le braccia legate dietro la sedia su cui si trovava, intorpidite dalla corda che gli affondava nei polsi.

Il suo respiro accelerò, facendogli aderire il sacchetto al viso ogni volta che cercava di inspirare a fondo. Seth non sapeva dove si trovasse, chi l’avesse rapito o cosa gli sarebbe accaduto, ma ne sapeva abbastanza da capire almeno in parte cosa stesse succedendo. Anche se forse non aveva a che fare con lui personalmente, era sicuro che trovarsi legato a una sedia con un sacchetto sulla testa avesse qualcosa a che fare con il suo essere un Villani.

Lo scricchiolio di terriccio sotto le scarpe di qualcuno attrasse la sua attenzione e Seth smise di cercare di muovere le sue dita intorpidite. “Chi c’è?” Riconobbe a malapena la sua stessa voce, tremante e più acuta del solito.

Invece di rispondere, il suo rapitore si aggirò lentamente per la stanza, alimentando l’ansia di Seth per un’eternità di future torture immaginarie.

“Cosa sta succedendo?” Gemette Seth, stavolta in italiano.

La luce lo accecò per un istante quando qualcuno gli strappò il sacchetto dalla testa. Appena i suoi occhi iniziarono ad abituarsi alla fioca luce dell’unica lampadina, Seth guardò l’uomo che gli stava davanti. Era un asiatico basso e cicciottello ma, visto il fare sicuro di sé con cui reggeva in mano la pistola, Seth non avrebbe osato sottovalutarlo. Nella stanza vuota e buia, con Seth incapace di difendersi, la situazione avrebbe potuto farsi rapidamente catastrofica.

Seth deglutì e si guardò intorno. Non c’erano finestre.

“Chi sei?” Gemette, nuovamente in inglese.

Lo sconosciuto strinse gli occhi e inclinò la testa da un lato. “Seth Villani,” disse, con un forte accento mandarino.

Seth deglutì pesantemente. “Sì?” Solo allora si rese conto del suono appena percettibile di un respiro da qualche parte dietro di lui.

“Spero di non averti strappato a qualche impegno importante,” disse l’uomo davanti a lui, facendo un passo in avanti. Era troppo vicino per i gusti di Seth.

Cercò di calmare il respiro, ma gli faceva male ovunque e non riusciva a decidere se recitare la parte del tipo tosto o se fare il bravo. “Chi sei? Cosa vuoi?”

“Sfortunatamente, abbiamo delle questioni in sospeso con suo padre.” Il rapitore si passò le dita fra i corti capelli neri. “Lei ci è molto utile nel nostro litigio.”

“Ma… io non c’entro niente! Ho lasciato l’Italia cinque anni fa.” Seth si accasciò sulla sedia e, per una volta, desiderò non essere così massiccio. Avrebbe voluto essere abbastanza piccolo da sparire. Raggrinzirsi sulla sedia. Sapeva fin troppo bene che parlare all’uomo che gli stava davanti era come cercare di mangiare del brodo con le bacchette. Qualunque argomentazione potesse avere, non sarebbe servita a niente.

“Temo, signor Villani, che c’entri molto, invece.” Le parole dell’uomo erano completamente prive di emozioni. Guardò sopra il braccio di Seth, rivolto alla terza persona presente nella stanza, e annuì bruscamente.

Uno schiocco secco fece gelare il sangue a Seth e, nel panico, lui cercò di guardarsi alle spalle. Perché cazzo non volevano capire che lui nemmeno ci parlava spesso, con suo padre? Aveva chiuso con la Famiglia. Con la coda dell’occhio colse lo scintillio di una lama, e inspirò profondamente.

“Dimmi solo cosa vuoi!” Gridò, ma lo sconosciuto scosse la testa, indietreggiando, un’espressione piatta sul volto.

Seth rimase senza fiato quando le mani di qualcuno sfiorarono le sue e, nonostante l’intorpidimento, sentì quel qualcuno stringergli il mignolo.

“Te lo darà! Lo giuro! Basta che mi lasci andare!” Strillò Seth, cercando di spostarsi. Ma la sedia era fissata al pavimento. Inchiodata lì come un qualche arnese di tortura.

Un dolore aguzzo lacerò il lato della mano di Seth e la persona alle sue spalle gli tirò il dito, come se stesse cercando di strapparlo. La lama tagliò la pelle di Seth senza pietà e per quanto lui gridasse, urlasse con tutto il fiato che aveva in gola, la situazione non sarebbe cambiata. Immaginava che il dolore sarebbe stato ancora peggiore se le sue mani non fossero state così intorpidite, ma niente l’aveva preparato a questo tormento senza fine. Il macellaio alle sue spalle ebbe difficoltà quando raggiunse l’osso e Seth pianse come un bambino, senza poter controllare il tremito delle sue braccia.

Perdere conoscenza fu una benedizione.

***

I giorni e le notti di Seth passavano in una stanza nera come la pece, mentre lui si addormentava, si svegliava o camminava in tondo. Se fosse rimasto lì dentro troppo a lungo, temeva che gli sarebbe venuta un’aritmia al cuore. Le uniche volte in cui scorgeva un bagliore di luce nel corridoio erano quando qualcuno gli portava da mangiare, e attendeva quei momenti con pari timore ed eccitazione. Si era abituato all’aria umida, il puzzolente materasso che gli avevano dato per dormire, lo scomodo lenzuolo sottile. Quando qualcuno entrava nella sua solitaria caverna, significava che un cambiamento era imminente: cambiamento che avrebbe potuto essere del cibo, o un altro dito amputato. Le visite sembravano essere regolari, ma a un certo punto Seth perse la cognizione del tempo. Perse anche l’appetito. Mangiava perché sapeva di doverlo fare ma, se mai fosse uscito, non avrebbe mai più mangiato un pollo tikka masala in vita sua.

Visto che non aveva nulla da fare, aveva più tempo per pensare di quanto avrebbe mai voluto avere. Eseguiva gli ordini e stava in silenzio, visto che sapeva già che la gente che lo aveva rapito era capace di tutto. Fantasticava di poter aggredire uno di loro, ma poi? Anche se avesse preso la pistola del primo tizio, era sottoterra, Dio solo sapeva dove, e dovevano esserci almeno un’altra dozzina di bastardi della Triade.

Un’altra cosa su cui si tormentava, sdraiato senza riuscire a dormire, era il funerale di sua madre. Aveva saputo della sua morte solo poche ore prima di essere rapito. Era malata da molto tempo, Seth sapeva che sarebbe successo; eppure, il senso di colpa di non poterle nemmeno rendere un ultimo omaggio lo tormentava.

Il suo fidanzato probabilmente era preoccupato da morire ma, per quanto gli dispiacesse che Peter fosse all’oscuro della situazione, pensare a lui aiutava Seth a concentrarsi su qualcos’altro a parte il dolore alla mano. Continuava a ripensare alle ultime settimane che avevano passato insieme.

***

L’attesa sembrava infinita. Giorni? Settimane? Senza finestre, Seth non sapeva nemmeno se fosse giorno o notte. All’inizio aveva cercato disperatamente di calcolare una routine, ma i suoi rapitori sembravano svegliarlo a orari casuali; che fosse solo per crudeltà o deliberatamente per confonderlo, non lo sapeva. Gli strappavano il lenzuolo di dosso, urlavano in una lingua che non capiva, sbattevano una mazza da baseball sul termosifone, rompendo il silenzio e riducendo Seth a un cumulo di gelatina tremante.

Il dolore gli creava meno problemi. Seth ci si era abituato, quindi ogni tanto se ne dimenticava, ma il furioso dolore pulsante alla mano tornava sempre ad assalirlo. Gli ci vollero tre pestaggi per capire che a ogni domanda sarebbe stato risposto con la violenza, quindi smise di parlare ai suoi rapitori.

***

Il giorno in cui fu trascinato fuori dalla stanza iniziò come uno di quei terribili momenti studiati per confonderlo, ma non ci fu nessuna mazza da baseball né rumore inutile. Due uomini lo trascinarono fuori e le abbaglianti luci bianche del corridoio gli fecero stringere gli occhi per ripararli dal bagliore quasi doloroso. Dopo una breve doccia fredda gli diedero un completo malfatto, alla faccia degli abiti di sartoria che usava di solito, e scarpe troppo grandi per lui. Seth non aveva idea di cosa stesse succedendo. L’avrebbero mandato da qualche altra parte? Sicuramente non si sarebbero disturbati a fargli fare un bagno solo per poi ucciderlo? Si azzardò a chiederlo, ma gli dissero solo di vestirsi più in fretta. Forse la sua famiglia aveva finalmente deciso di intervenire? Per quanto non volesse avervi niente a che fare, non aveva mai pensato a suo padre con più affetto di ora.

Lo condussero lungo uno stretto corridoio con il soffitto basso, così pieno di cavi e tubi che sembrava ornato di decorazioni natalizie in stile industriale. Finalmente raggiunsero una porta in fondo al corridoio e, quando questa si aprì, una luce accecante abbagliò Seth.

Fu sopraffatto dall’aria frizzante che gli colmò i polmoni e dalla luce del sole che entrava liberamente dai lati dell’edificio. Cercò di capire dove si trovasse, ma sembrava un parcheggio sotterraneo stranamente vuoto.

Strinse gli occhi per vedere meglio mentre i rapitori lo spingevano in avanti. Quando vide due gruppi di uomini vicino ad alcune macchine costose, aprì la bocca. Asiatici da un lato, occidentali dall’altro, per lo più con pelle olivastra e abbronzata e capelli scuri.

Siciliani.

Seth sgranò gli occhi, con il cuore che batteva all’impazzata. Sarebbe andato tutto bene? Avrebbero pagato un riscatto?

Il suo sguardo guizzò istantaneamente su un uomo che fece un passo in avanti, uscendo dal suo gruppo. In parte perché portava una valigetta nera, che sperava contenesse un riscatto per liberare Seth, e in parte perché quell’uomo era incredibilmente affascinante. La mente di Seth finì in una realtà parallela per qualche secondo.

Lo scatto di una valigetta aperta lo riportò bruscamente alla realtà, e vide ordinate mazzette di banconote da cento dollari. L’attraente siciliano sembrava agile come una pantera, con i lunghi capelli neri raccolti in una coda. Si muoveva con fare sicuro di sé, come se fosse nato per restare calmo sotto pressione. La sua postura eretta e il suo completo nero pece risvegliarono l’orgoglio di Seth e lo spinsero a raddrizzare la schiena nonostante i muscoli e le articolazioni doloranti. In una sfida di completi, però, Seth avrebbe perso prima ancora di cominciare. La fattura impeccabile di quell’opera d’arte nera creava una silhouette spigolosa dalle ampie spalle dell’uomo alla sua vita snella. Guardare quella scura perfezione bastava a far smaniare Seth dalla voglia di togliersi l’insulto alla moda che indossava. La cravatta dell’uomo era stretta ed elegante, mentre Seth non ne indossava nemmeno una.

Uno degli asiatici si fece avanti, prese la valigetta e la portò al suo capo. Seth non lo seguì con lo sguardo, ancora stregato dal siciliano, che lo fissava con i suoi occhi ambrati. I loro sguardi si incrociarono e Seth smise di respirare. Era come essere osservato da un puma; gli occhi dell’uomo erano intensi, e non sbatteva mai le palpebre. Seth non sapeva se volesse fare un passo in avanti o correre via. Quegli occhi erano freddi e lo scrutavano come se fosse una merce di valore assai inferiore al prezzo pagato per averla. Ma forse non era quello che si nascondeva in quel cranio perfetto? Forse era l’ego ferito di Seth a parlare, visto che era furioso con sé stesso perché doveva essere salvato come un bambino. Alla fine, la sua incertezza vinse e Seth distolse lo sguardo, cercando di non pensare alla barba incolta che gli ricopriva il viso e alla magra figura che faceva in confronto alla pelle ben rasata dell’affascinante mafioso.

Il boss cinese doveva aver confermato di essere soddisfatto della cifra, perché l’uomo alle spalle di Seth gli tolse le manette che gli costringevano le mani dietro la schiena. La libertà fu una tale sorpresa che Seth non si mosse subito, prendendosi un secondo per guardare i segni rossi che aveva sui polsi ma, appena si rese conto di poterlo fare, le sue gambe parvero muoversi da sole, facendolo scattare di corsa. I sorrisetti che apparvero su alcuni volti gli fecero rimpiangere di aver reagito in quel modo, ma quel che era fatto era fatto.

Tutti i siciliani tornarono alle loro auto, incluso il capo, il cui ricco profumo sembrava sussurrare “Seguimi e scopami sul sedile posteriore.” Quindi Seth lo seguì, restandogli alle calcagna. Notò, con una certa soddisfazione, di essere circa tre centimetri più alto.

“Cos’è successo? Perché sono stato rapito?” Chiese, a tutti e a nessuno, ancora cosciente del tono nervoso della sua voce. Si strinse il polso sinistro quando una fitta di dolore gli rammentò del suo dito mancante.

L’affascinante sconosciuto si fermò e lo guardò da sopra la spalla. “Non avresti dovuto cercare di comprare un pollaio dagli annunci di Craigslist,” disse, aprendo con uno scatto un accendino.

Seth si limitò a guardarlo, attonito da quella risposta. Era caduto in un’imboscata mentre andava a ritirarlo. L’inserzione era di un venditore anonimo. Merda.

Il mafioso si accese una sigaretta e diede ordini agli altri uomini. Il suo profilo era come quello di un attore, con il naso dritto e labbra dalle proporzioni perfette. Per un momento, Seth pensò che forse era davvero un attore, assunto per motivi a lui sconosciuti, ma il tizio aveva qualcosa di familiare che Seth non riusciva ancora ad identificare.

“Portatelo dove vi dice di portarlo, e verrò a prenderlo fra un’ora e mezza,” disse l’uomo, con una voce così profonda che fece correre un brivido lungo la schiena di Seth. Seth stava iniziando a essere irritato dalla sua reazione viscerale. Era solo un tizio figo. Era il momento di piantarla, visto che l’omosessualità era inesistente dove stava andando.

Un mafioso gay era un mafioso morto.

Seth socchiuse le labbra guardando l’uomo sistemarsi il bavero della giacca con le lunghe dita, adorne di ben tre anelli con sigillo. “Che giorno è oggi?” Riuscì finalmente a dire, con voce strozzata. Si sentiva così sciatto e malconcio in confronto a quel bellissimo uomo. Anche se a quell’uomo probabilmente non importava, Seth non riusciva a sopportare quella silenziosa competizione, che risvegliò in lui il desiderio di sistemarsi e indossare bei vestiti; desiderio che ancora non poteva soddisfare.

“Il dieci settembre,” disse uno degli uomini che rimasero con Seth quando l’uomo dei suoi sogni se ne andò senza più rivolgergli l’attenzione.

“E chi era quello, comunque?” Seth cercò di fingersi indifferente, ma quell’uomo era l’unica cosa di cui poteva parlare e a cui poteva pensare senza dolore o vergogna dopo due settimane di prigionia.

“È Domenico Acerbi.” L’autista di una lucida Maserati nera gli aprì la portiera.

“Cosa?” Seth si accigliò e salì in auto, scosso da quell’informazione. Quel Domenico Acerbi? Il ragazzino magro con cui giocava da bambino? “Perché mio padre ha mandato lui? Lascia perdere, gli parlerò io stesso,” aggiunse, prima di ricevere risposta. Il fatto che fosse uno come Domenico Acerbi a scuoterlo in quel modo lo stava irritando.

L’autista annuì e in pochi secondi partirono.

Seth si guardò la mano, avvolta in bende sporche e bagnate, ancora scioccato dall’improvviso cambiamento della sua situazione. Non vedeva Domenico da quindici anni. E sapeva esattamente quanti fossero perché ricordava quando aveva undici anni e il ‘piccolo Mimmo’ l’aveva aggredito con un coltello da cucina. Dopo, Seth non l’aveva più rivisto. Era come se fosse svanito dalla faccia della terra. Il che non sarebbe stata una sorpresa, in quella famiglia. Circa due anni dopo il fatto, Seth l’aveva sentito nominare ogni tanto, di rado in sua presenza, ma era tutto.

E ora Domenico era stato mandato a salvarlo, come capo del gruppo, calmo e tranquillo, grondante di testosterone. E quel suo profumo… Dio, non avrebbe dovuto essergli permesso essere così affascinante.

Seth ordinò all’autista di fermarsi a qualche isolato di distanza dall’appartamento che divideva con Peter e uscì dall’auto, stringendo il cellulare che gli avevano dato. Non voleva rivelare il suo indirizzo preciso, per andare sul sicuro. Avere un amante gay non gli avrebbe certo fatto vincere il premio del figlio dell’anno. Mentre si affrettava lungo la strada con il suo completo malfatto e le scarpe scomode, cercò di escogitare un modo per far sapere a Peter che dovevano separarsi. ‘Ho bisogno di spazio’ non avrebbe funzionato, ma Peter era troppo delicato per attirarlo nelle vicinanze della famiglia Villani. Alle volte, Seth pensava di essere lui stesso troppo delicato per stare vicino alla sua famiglia. Aveva pensato che trasferirsi in un altro continente gli avrebbe garantito abbastanza spazio. Era stato un vano desiderio. Almeno, aveva avuto l’opportunità di godersi una vita sessuale gay molto attiva, cosa che non avrebbe mai potuto fare in Italia. A casa lo conoscevano tutti, tutti gli tenevano gli occhi addosso e nessun uomo gay con un minimo di istinto di sopravvivenza gli si sarebbe avvicinato.

Seth, il figlio del Don. Saresti stato un idiota a cercare di fartelo, pensò con fare cupo Seth, prima di iniziare a salire le scale dell’appartamento che aveva condiviso con il suo fidanzato per un anno.

La porta di legno sembrava appartenere a un’altra vita e, quando Seth estrasse il portafoglio che i suoi rapitori gli avevano restituito insieme ai vestiti, fu come se stesse entrando nella vita di qualcun altro. Girò la chiave nella toppa, trasse un respiro profondo ed entrò nell’appartamento, sentendosi dieci anni più vecchio appena mise piede nell’atrio incasinato. Nella luce bluastra che proveniva dal soggiorno, guardò le scarpe sparpagliate ai suoi piedi. Un’ombra le oscurò.

“Seth?”

“Sì, sono io,” disse Seth, irritato per il suono raschiante della sua voce.

La porta sbatté contro il comò e improvvisamente Seth si ritrovò il suo fidanzato tremante fra le braccia. Peter sembrava così piccolo e fragile mentre si aggrappava a Seth, singhiozzandogli all’orecchio, ma il suo profumo di fiori non evocò niente tranne un senso di familiarità. Non assomigliava affatto al profumo virile di Domenico Acerbi, così intenso che aleggiava ancora nel naso di Seth.

“Ehi, Peter, non piangere. Sono vivo, va bene?” Disse, ma si accigliò scorgendo il suo riflesso malconcio nello specchio. Peter aveva un aspetto terribile, con gli occhi gonfi e senza trucco, i corti capelli biondi arruffati, ma non sembrava importargli. Si strinse a Seth come un bambino.

“Dove sei stato? Chi ti ha fatto questo? Ero preoccupato da morire!”

Seth si afferrò la mano bendata. Non poteva trascinare Peter in quella storia. “Qua e là,” borbottò. Le lancette dell’orologio stavano ticchettando e gli restava solo mezz’ora prima che qualcuno, forse Domenico, lo chiamasse. Ma Peter non lo ascoltava e, pochi secondi dopo, trascinò Seth in soggiorno, accendendo la luce per guardargli i polsi.

“Cosa c’è che non va?” Gli occhi rossi di Peter erano fissi su Seth, che distolse lo sguardo, fissando le scatole vuote di gelato sul tavolino da caffè.

Seth non voleva allontanare Peter. Aveva già fatto abbastanza danni negli ultimi mesi, quando litigavano a non finire e rifiutavano di rivolgersi la parola per ore. E non era quello il momento di riparare una relazione che non era certo idilliaca. Peter meritava pace e un uomo che potesse prendersi cura di lui, non di essere trascinato nell’inferno della malavita.

Seth gli mostrò la mano priva del mignolo, senza lasciar trapelare alcuna emozione, anche se non aveva ancora avuto l’occasione di guardarla bene. Peter impallidì e si portò una mano alla bocca mentre entrambi fissavano la nocca nascosta dalla benda.

“S-Seth…”

“Non puoi farne parola con nessuno, va bene?” Si liberò con delicatezza dalla stretta di Peter e si alzò. Le valigie non si sarebbero fatte da sole e non voleva illudersi che sarebbe tornato presto.

“No… Seth, dimmi cos’è successo!” Peter gli afferrò il braccio con un cipiglio determinato.

Seth lo guardò e si accorse che Peter sembrava ancora più fragile del solito. “Sono finito nei guai con la gente sbagliata.” Come poteva spiegare che la sua famiglia era parte integrante del problema?

“Ma… non potevi farmelo sapere?” Singhiozzò Peter, affondando le dita magre nel bicipite di Seth. Pesanti lacrime gli colavano sulle guance, sbavando quanto restava del suo mascara. “Mi sono così spaventato quando neanche la polizia è riuscita a scoprire niente!”

Seth trasalì e afferrò le guance di Peter, per farlo concentrare. “Cos’hai detto alla polizia?”

La reazione iniziale di Peter fu di incurvare le spalle e distogliere lo sguardo. “Che… che eri sparito. Cos’avresti fatto al mio posto?”

Seth si accigliò e gli scostò le dita. “Me ne occuperò io. È solo questa… cazzo di mano.” Si passò le dita fra i corti capelli.

Peter lo circondò con le sue braccia sottili e gli baciò la guancia. “Ma devi denunciarli. E se ti facessero di nuovo del male?”

“Nessuno ‘denuncerà’ niente, mi hai capito? Deve restare tutto fra noi, per il tuo bene,” disse, e si staccò Peter di dosso. Corse in camera da letto, dove si rese conto di non avere molto che valesse la pena prendere. “E nessuno mi farà del male perché, la prossima volta, non lascerò che mi colgano di sorpresa.”

Il suono dei passi affrettati di Peter echeggiò alle sue spalle mentre ispezionava la loro piccola camera da letto. Il letto matrimoniale la occupava quasi interamente, lasciando appena abbastanza spazio per arrivare all’armadio.

“Ti prego, non farlo. È pericoloso!”

“Calmati. Cazzo. Sistemerò tutto.” Seth prese alcuni dei suoi abiti preferiti, fra cui una giacca di pelle, e li gettò sul letto.

Peter indietreggiò verso la porta, afflosciandosi con le mani strette a pugno. “Non posso stare calmo. Ho paura.” Si coprì il viso con le mani e cadde lentamente in ginocchio, ridotto a un magro mucchietto.

Seth si morse il labbro inferiore, frustrato. Non avrebbe mai voluto diventare un mostro che faceva piangere i fidanzati, ma non poteva più tornare indietro. “Meno ne sai, meglio è.” Tirò fuori dall’armadio una piccola borsa da viaggio e gettò anche quella sul letto.

“È quello che dici sempre,” sussurrò Peter dal pavimento.

“Perché… è pericoloso.” Finalmente, abbassò lo sguardo su Peter, senza sapere che risposta dargli. “Pete… mia madre è morta,” disse e la sua voce lo tradì, facendosi tremante. Il ricordo del suo sorriso gli fece stringere la gola. Era sempre stata lì per lui. Potevano parlare per ore su Skype. Il pensiero gli rammentò l’unico tesoro che possedeva e lo fece correre in cucina, seguito dal suo povero ragazzo.

“Oh Dio, Seth! Mi dispiace tanto.” Appena Seth si fermò nella piccola ma accogliente cucina, Peter gli sbatté contro e lo prese di nuovo fra le braccia.

“Devo andare in Italia,” sussurrò Seth, ricambiando l’abbraccio, con gli occhi fissi su ciò che era venuto a prendere. Il libro di ricette che sua madre gli aveva fatto quando era partito per andare all’università.

Peter gli carezzò l’avambraccio peloso, accigliandosi, con gli occhi fissi su qualcosa di molto distante. “Potrei prendere delle ferie. Voglio aiutarti.”

Seth deglutì mentre il senso di colpa gli risaliva in gola come della bile. “Non capisci. È pericoloso. Io…” Come poteva spiegarlo? “Devo restare nascosto per un po’.”

Le dita di Peter scesero fino alla mano di Seth e la strinsero con forza. “Perché non possiamo nasconderci insieme? Non posso sopportare di essere di nuovo preoccupato per te,” implorò, con voce rotta.

“Non posso trascinarti in tutto questo.” Seth si chinò per baciarlo, quindi si allontanò per prendere il libro di ricette.

“Ma devo esserci trascinato. Lo affronteremo insieme.”

“Peter, dannazione. Devo andarmene, subito!” Gridò Seth, e tornò di corsa in camera da letto per fare i bagagli. “Non rendermi le cose difficili. Voglio solo… voglio che tu sappia che il tempo che abbiamo passato insieme è stato bellissimo.” Non riusciva a dirglielo in faccia e fece una smorfia quando Peter si fece improvvisamente immobile. La fastidiosa suoneria del telefonino fu un immenso sollievo.

Rispose, accigliato, interrompendo il ritornello di ‘Barbie Girl’ degli Aqua, e chiuse la cerniera del borsone con una mano sola. Una voce profonda dall’altro capo della linea gli fece correre un caldo brivido lungo la schiena.

“Ti sto aspettando.”

Seth deglutì. “Sì, arrivo,” disse, con voce così seria che la riconobbe a malapena. Riattaccò. “Peter, vieni qui.” Seth tese la mano ma, con Peter impalato dov’era, dovette abbracciarlo a forza. Il profumo di fiori gli colmò le narici mentre toccava il corpo immobile del suo ormai ex ragazzo.

“Seth… cosa vuoi dire?” Sussurrò Peter.

“Voglio dire che mio padre ha bisogno di me.” Seth gli diede un bacio sulla tempia.

“Cosa c’entra con noi due?” Peter gli nascose il viso contro il collo mentre ‘Barbie Girl’ tornava a rovinare il momento. Seth avrebbe ammazzato lo stronzo che aveva avuto la brillante idea di scegliere quella suoneria.

“Ho detto che sto arrivando, cazzo!” Ringhiò al telefono, quindi riattaccò subito, abbassando lo sguardo sul viso pallido di Peter. “Pete. Non so quando potrò tornare, se mai potrò farlo, e non posso farti aspettare per sempre.”

“Ma… possiamo farci visita… e parlare su Skype, giusto?” Peter stava tremando fra le sue braccia. “Non saremmo la prima coppia ad avere una relazione a dista…”

Seth sbottò. “Non puoi farmi visita. Non so quanto starò via e i miei parenti sono un branco di omofobi. Ti lascio il mio numero, ma non posso prometterti niente,” disse, scostandolo per andare in corridoio. Poteva anche essere il figlio del Don, ma l’ultima cosa che voleva era che Domenico salisse di sopra e vedesse con chi viveva. Scarabocchiò un numero inventato su un blocchetto vicino alla porta, vergognandosene già. Ma doveva andarsene in fretta e avrebbe chiamato Peter quando fosse stato sicuro farlo.

“Grazie,” sussurrò Peter, abbracciandolo con tutta la forza delle sue magre membra. “Ti mancherò?”

“Cazzo, Peter, devo andare. Mi mancherai.” Seth gli diede un ultimo bacio e si allontanò, afferrando il borsone dal letto.

“Seth, stai attento,” borbottò Peter, ma non cercò più di fermarlo.

Seth gli carezzò un’ultima volta i capelli, ma uscì di corsa dall’appartamento e scese a grandi passi le scale. Il suo cuore non poteva sopportare altro senso di colpa, quindi scappò il più velocemente possibile.

Una volta in strada, notò subito l’auto nera e corse verso la portiera, che qualcuno aprì dall’interno. L’aveva appena sbattuta quando l’auto partì. Si ritrovò goffamente inginocchiato sul sedile con il borsone sulle ginocchia di Domenico. Seth fissò le sue fattezze incredibilmente simmetriche.

“Non hai altro? Questo Paese non ti ha dato molto,” chiese Domenico, con una voce che fece venire a Seth la pelle d’oca dappertutto.

Seth tirò indietro il borsone e lo mise in mezzo a loro prima di sistemarsi sul sedile. “Come ti pare,” fu tutto ciò che disse allo stronzo. Erano soli, con uno spesso vetro nero a separarli dall’autista.

Domenico si rilassò contro lo schienale e fece scrocchiare le nocche. “Ci hai messo così tanto che stavo iniziando a domandarmi se stessi ripiegando le mutande.”

Seth lo fissò a bocca aperta, mentre il gelo gli scorreva nelle vene. “Cristo Santo, dovevo occuparmi di una cosa.”

Domenico infilò una mano in tasca e ne estrasse un pacchetto di sigarette e un accendino. Il debole bagliore della fiamma illuminò i bei tratti dell’uomo, quindi l’aria si colmò di fumo.

“Tuo padre si sta facendo impaziente. Si infurierebbe se perdessimo l’aereo.”

“Lo so,” borbottò Seth, e non poté impedirsi di dare un’altra occhiata a Domenico. Da qualche parte, dietro la facciata del completo su misura e del suo atteggiamento calmo, cercò di ritrovare il ragazzo che una volta aveva chiuso in un bidone della spazzatura. Chissà, forse Seth stava davvero reagendo in modo eccessivo. Forse Domenico aveva dimenticato tutte quelle sciocchezze. Sicuramente, aveva un aspetto molto diverso.

Aveva la stessa pelle olivastra e i chiari occhi ambrati con folte ciglia nere, ma il viso un tempo innocente e paffuto era svanito, sostituito dalle linee dritte e ben definite del suo naso, le sue folte sopracciglia e i suoi zigomi alti. Avrebbe potuto fare il modello. Al contrario del ragazzo che Seth conosceva quasi vent’anni prima, quest’uomo mostrava una sicurezza di sé che Seth vedeva raramente. Ogni suo movimento era sia disinvolto che studiato. E i suoi accessori, un orologio costoso e occhiali da sole alla moda, completavano la sua immagine perfetta.

Seth continuava a sentire una corrente di attrazione, ma cercò di non fissarlo, più concentrato sul valutare il suo avversario. Sul competere, anziché cercare di attrarlo. Non aveva idea di come gestire una persona come Domenico. I suoi istinti continuavano a dirgli che era un topo che si stava avvicinando a una trappola, che stava per spezzargli il collo. Essere ferito non lo aiutava certo a essere più sicuro di sé.

“Perché ha mandato te, fra tutti?” Borbottò finalmente Seth.

Domenico gli rivolse una lenta occhiata e Seth non poté impedirsi di seguire con lo sguardo il filo di fumo che uscì da quelle labbra dal taglio perfetto, arricciandosi intorno alla morbida carne come se non potesse farne a meno. “Beh, non poteva permettere che ti tagliassero qualcos’altro, no?”

Seth deglutì. Era ancora peggio. Lui era ancora un topo ma Domenico non era una trappola, quelle si potevano evitare. Era come essere chiuso in gabbia con un cobra. Una parte di Seth voleva soltanto aprire la porta e saltare fuori.

Guardò la portiera dell’auto, quindi la propria mano. “Meglio un mignolo di un pollice,” disse, cercando di sembrare un duro. Forse con un po’ di sforzo, poteva riuscire ad essere un porcospino? O almeno un riccio…

Era un piacere ascoltare quella ricca voce da baritono, e allo stesso tempo un fastidio che lo faceva infuriare. “Credo che fosse tutto per salvare l’indice,” disse a cuor leggero Domenico.

Seth strinse gli occhi. Quel bastardo era anche più giovane di lui. Come poteva scherzare su cose così serie? “Pensi sia divertente?”

Domenico soffiò del fumo dal naso, guardando Seth con uno scintillio divertito negli occhi. “Certo che no.”

“Allora di cosa sei così contento?” Seth seguì il fumo con gli occhi. Non gli sarebbe dispiaciuta una sigaretta, ma non aveva intenzione di chiederla a Domenico. Avrebbe tanto voluto potergli prendere le sigarette e rinchiuderlo di nuovo nel bidone dell’immondizia.

“Sono solo felice di avere l’onore dell’incarico di scortarti fino a casa,” disse Domenico, con un accento aristocratico che mal si addiceva alle sue umili origini.

Seth trasse un respiro profondo e cercò di non immaginare quelle labbra intorno al suo cazzo. “Prenderai l’aereo con me?”

Il fumo aleggiava intorno alle labbra di Domenico, carezzandole in modo sensuale. “Non dormirò per due giorni.”

“Perché? Devi farmi da babysitter?” Seth sbuffò e incrociò le braccia sul petto. Era davvero spiacevole.

“Così mi è stato ordinato.”

“Cosa? Da quando ho bisogno di una tata? Di che diavolo si tratta, comunque? Mio padre li ha pagati o no?” Seth non riusciva a decidere cosa fosse peggio… essere informato degli affari della Famiglia, o non saperne niente.

La bocca assurdamente perfetta di Domenico si curvò in un sorrisetto mentre spegneva la sigaretta e già ne tirava fuori un’altra. “Sembra che tu non valessi tutti e tre i milioni. Hanno negoziato e sei stato scambiato per un terzo della cifra e uno dei loro uomini.”

Seth si imbronciò. Doveva trovare un difetto a Domenico per convincersi di avere a che fare con un essere umano e non con la personificazione dello stile italiano e di tutti i suoi sogni erotici. Magari un bottone mancante? Osservò di nuovo il completo di Domenico. Niente. Non c’era neanche un cazzo di filo pendente.

“Beh, spero che abbia anche perso un dito.” Lasciò che la sua amarezza trapelasse dalle sue parole.

L’accendino scattò di nuovo. “Una mano.”

Seth si bloccò. “Bene,” riuscì a dire, ma non senza sentirsi a disagio. Immaginò Domenico effettuare lui stesso l’amputazione. E lo trovò decisamente figo, il che era anche peggio.

“Probabilmente morirà, il che annullerà l’affare.” Domenico si strinse nelle spalle e sorrise a Seth come se gli stesse parlando degli alti e bassi di una partita di calcio. “Ma non ti preoccupare, ti terrò in vita finché arriveremo a casa.”

“Ho anch’io una pistola, sai.” Seth finalmente osò guardare Domenico dritto negli occhi, che risaltavano sotto i suoi capelli neri come la pece.

Domenico lo stava guardando, perfettamente rilassato. “Beh, non l’hai usata quando è stato il momento.”

“Erano in cinque. Ho sparato a uno,” mentì Seth. “Come facevano a sapere dove vivo? Vedo mio padre al massimo una volta all’anno.”

Domenico si sistemò una valigia fra le gambe con un leggero sospiro. “C’era una spia ma non preoccuparti, ce ne occuperemo.”

Seth non osava domandarsi cosa volesse dire, quindi cambiò argomento. “Verrai anche al funerale?”

“Certo,” replicò Domenico, guardando fuori dal finestrino. Si stavano dirigendo verso l’aeroporto John F. Kennedy.

“Hai dei vestiti per me?” Seth abbassò lo sguardo sul suo completo economico e malfatto e fece una smorfia per la vergogna. Suo padre non sarebbe stato felice se fosse arrivato con un aspetto peggiore di uno come Domenico Acerbi.

“Ti cambierai all’aeroporto,” rispose Domenico. Rimasero in silenzio e sembrò che Domenico si fosse addormentato ma, appena l’auto si fermò al terminal, aprì la portiera e scese dall’auto.

Seth annuì e uscì dall’altra portiera, quasi dimenticandosi il borsone. Cazzo. Continuare a fare la figura dell’idiota feriva il suo orgoglio proprio come la perdita di un dito. Si guardò intorno e vide Domenico, vicino a un segnale per taxi, che si abbottonava la giacca del completo perfettamente su misura. Era come guardare una pantera: bellissima, attenta e mortale. Domenico mise gli occhiali da sole di classe e si accigliò quando il vento gli fece sfuggire alcune ciocche di capelli dalla coda.

Seth lo fissò, ma servì solo a farlo arrabbiare perché non era altrettanto presentabile quando aveva tutti i mezzi per esserlo. Non vedeva l’ora di indossare qualcosa di meglio. Senza una parola, si diresse verso l’entrata del terminal e sentì una scintilla di soddisfazione quando Domenico lo seguì.

Camminarono in fretta, dritti verso i bagni. Domenico entrò per primo, diretto verso la seconda stanza, dove si trovavano i cubicoli. Si fermò improvvisamente e premette la valigia contro il petto di Seth. “Cambiati.”

Seth si accigliò perché suonava come un ordine, ma entrò nel cubicolo senza protestare. Se tutto fosse andato liscio, fra qualche ora avrebbe potuto dormire. Avrebbe mangiato qualcosa di semi-decente sull’aereo e bevuto tutto il vino che desiderava.

Il cubicolo era stretto ma lungo, quindi aveva abbastanza spazio per muoversi senza sbattere contro niente. Chiuse il water, vi posò sopra la valigia e guardò la porta, sotto la quale poteva ancora vedere le scarpe di Domenico sulle piastrelle. Scosse la testa, rivolto alla lucida pelle nera.

Seth si spogliò il più in fretta possibile e aprì la valigia. Non poté trattenere un sospiro quando vide la stoffa scura. Non era un completo qualsiasi. Era nero, con una camicia abbinata. Era gentile da parte di suo padre pensare a lui anche in un momento così stressante.

Uno scatto secco lo fece voltare di nuovo verso la porta, ma non si vedevano più le scarpe. Qualcosa sbatté contro la sottile parete alla sua destra, mozzandogli il fiato, seguito dallo scricchiolio di suole che sfregavano su qualcosa di liscio. Seth si mosse verso la parete sinistra del cubicolo e trasse un respiro profondo. La carenza di sonno doveva giocargli brutti scherzi, perché il rumore svanì. Indossare quei vestiti lo rese di uno strano umore. Da un lato, si sentiva vestito in modo più appropriato ma, dall’altro, il nero non faceva che rammentargli la morte di sua madre. Lentamente, si sporse a guardare fuori dal cubicolo, indossando solo camicia e pantaloni.

C’era un uomo vicino agli urinali nell’altra stanza, ma una rapida occhiata al bagno non bastò a individuare Domenico. Fece di nuovo partire il suo cuore al galoppo, rammentandogli il momento in cui era caduto nell’imboscata dei suoi rapitori. Con la testa che gli girava, iniziando a sudare, si ritirò verso il cubicolo che stava usando ma, proprio quando stava per rientrarvi, una porta gli sbatté addosso. Seth si voltò, sollevando all’istante un braccio per proteggersi, ma arrossì quando si ritrovò a guardare Domenico negli occhi.

“Ti ho detto di cambiarti,” disse la pantera, sfilandosi uno spesso guanto di gomma, con qualcosa di bagnato che luccicava sulla liscia superficie nera.

Seth sgranò gli occhi e si guardò intorno, confuso come un coccodrillo nel deserto. “Ma… Cosa sta succedendo?” Balbettò e fece un passo indietro, gemendo quando Domenico lo spinse nel cubicolo e bloccò l’ingresso.

“Hanno mandato un altro uomo a cercarti,” sussurrò Domenico. Nascose i guanti in tasca, girati al rovescio.

Seth indietreggiò fino al muro e indossò la giacca del completo. Si arrabattò con la cravatta, ma almeno significava avere una scusa per non guardare Domenico, che si era chiuso con lui nel cubicolo e stava trafficando con il cellulare. Lo sguardo di Seth si posò sulla parete che divideva i due cubicoli e lui ricordò come Domenico si fosse occupato in fretta di… qualsiasi fosse la situazione. Non aveva decisamente più voglia di ficcare Dom in un bidone della spazzatura.

“Non ci resta molto tempo.” Domenico scosse la testa, guardando Seth lottare con la cravatta. “Che diavolo stai facendo?” Lo raggiunse e afferrò la striscia di seta, annodandola come un professionista.

“Va bene, va bene. È che non porto la cravatta da un pezzo,” borbottò Seth, cercando di ignorare il profumo sexy di Domenico. Non ci riuscì. Sentì il sangue affluirgli al petto. “D-Domenico?”

“Che c’è?” Ringhiò Dom, chiudendo la valigetta, appena finito di sistemare la cravatta.

Seth si sporse in avanti. Non voleva stuzzicare i propri sensi, ma non aveva altra scelta se voleva sussurrare. “Dov’è il corpo?” Il profumo di Domenico era così buono che Seth era combattuto riguardo all’omicidio appena avvenuto. Ma d’altronde, perché avrebbe dovuto dispiacersi per un uomo che era andato lì con l’intenzione di ucciderlo?

Quando Domenico inspirò seccamente, Seth sentì l’aria sfiorargli il mento, i suoi occhi fissi sulle pupille dilatate di Domenico. L’uomo rimase in silenzio per un attimo, quindi inclinò la testa verso il cubicolo alla loro destra. “È tutto sistemato.”

“Ma cosa vuoi dire?” Insisté Seth, raddrizzando la schiena per sfoggiare la sua altezza. “Forse… ti serve aiuto?” Deglutì. Un cadavere era l’ultima cosa che voleva vedere, ma non poteva fare il codardo.

“No.” Domenico scosse la testa e, quando si chinò, il suo viso finì così vicino alla cerniera di Seth che Seth inspirò bruscamente. Era come essere un lupo rinchiuso con un agnello succulento, ma Domenico si raddrizzò appena raccolta la valigia. “Siamo già in ritardo.”

“Ma come sistemi una cosa del genere?” Seth fu irritato dal tono lamentoso della sua voce, ma Domenico aveva già aperto la porta ed era uscito dal cubicolo.

“Ho detto ‘andiamo’.”

Seth si accigliò. Non riusciva a credere che quel tizio fosse così maleducato. “Ero solo curioso,” borbottò, ma seguì Domenico, ignorando un tizio dalle sopracciglia aggrottate che scosse la testa guardandoli. Fantastico, ora qualcuno pensava davvero che si scopasse quel bastardo. Se solo fosse stato vero.

Erano quasi sulla porta quando quella si aprì, e due uomini vestiti da inservienti entrarono nel bagno con un grosso carrello che conteneva un bidone dell’immondizia e diversi prodotti. A Seth si gelò il sangue quando Domenico tirò fuori i guanti e li gettò distrattamente nel bidone mentre oltrepassava gli inservienti. Non ci fu alcun cenno di riconoscimento eccetto che una rapida occhiata che uno degli uomini rivolse a Seth prima di spingere il carrello verso i cubicoli.

Avevano appena superato il controllo passaporti quando l’altoparlante annunciò che mancavano due passeggeri da un volo per Roma e Domenico costrinse Seth a correre, dicendo che quei nomi erano i loro alias.

Seth aveva un nuovo passaporto e, prima ancora che potesse memorizzare la sua nuova data di nascita, stavano già correndo verso l’aereo. Stava lasciando New York senza quasi niente e aveva anche dovuto lasciare Peter. Stava succedendo tutto troppo in fretta per i suoi gusti, ma almeno era vivo e i cinesi non l’avevano torturato tanto quanto avrebbero potuto.

Furono gli ultimi passeggeri a raggiungere il loro gate, ma almeno risultò che sarebbe stato un volo comodo, visto che erano fra i pochi a viaggiare in prima classe, al piano superiore dell’aereo. Seth non guardò nemmeno i biglietti, seguendo Domenico. Stranamente, lo tranquillizzava che qualcun altro sapesse dove dovevano andare e quali erano i loro sedili. Domenico sapeva i loro nuovi nomi e a che ora sarebbero atterrati.

Con un sospiro di sollievo, Seth si afflosciò sul suo comodo sedile e distese le gambe. Solo ora si rendeva conto che il suo cuore stava ancora battendo troppo velocemente. Domenico, d’altro canto, era immacolato come prima. Si era già tolto la giacca del completo e stava guardando fuori dal finestrino, arrotolandosi distrattamente le maniche della camicia, rivelando i peli neri che gli coprivano gli avambracci.

Seth inspirò profondamente dal naso, cercando di tenere la sua attenzione nascosta. “Ecco perché ha mandato te,” disse piano.

Il chiaro sguardo color ambra di Domenico incrociò quello di Seth, completato da un leggero sorriso sul suo bel viso. “Tuo padre ha fiducia nelle mie qualifiche.”

Seth non l’avrebbe mai detto, ma voleva sapere tutto delle qualifiche di Dom. Soprattutto del suo diploma di succhiacazzi. “Sembri… abile.” Sembrava la parola adatta. Positiva, ma non troppo.

Domenico sollevò le sopracciglia, ma si strinse nelle spalle. “Lo sono. Non devi preoccuparti di niente.” E con ciò, si accomodò sul sedile.

Seth avrebbe potuto giurare che ci fosse qualcosa di canzonatorio nel modo in cui Dom l’aveva detto, eppure, quando tornò a guardare il suo accompagnatore, si sentì rassicurato. Era al sicuro. Se suo padre aveva mandato Domenico Acerbi, fra tutti, doveva essere la persona più adatta per il lavoro. Dopotutto, quel tizio aveva avuto le palle di accoltellare Seth a undici anni. “Sei cambiato.”

Una strana tensione attraversò i tratti di Domenico ma, alla fine, si strinse solamente nelle spalle. “Tu no.”

Seth si accigliò, colto alla sprovvista. “Cosa vorresti dire?”

Domenico ignorò la sua indignazione. “Dormi e basta.”

Seth gli rivolse un’occhiataccia ma rifiutò di mettersi a discutere, preferendo voltarsi a guardare fuori dal finestrino mentre l’aereo decollava.

Addio libertà, ciao Famiglia.

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